[…]Del Pezzo, che dal 1960 si era trasferito a Milano, su invito di Enrico Baj e di Arturo Schwarz, cominciava a forgiare un suo proprio linguaggio, in cui erano all'epoca evidenti le suggestioni e le influenze, tra di loro variamente combinate, del movimento nucleare, del surrealismo e della metafisica, di Burri e di Tàpies. In quelle opere ci sono filamenti e tensioni, reali e simbolici, che paiono volere stringere, tenere assieme e collegare tra di loro gli oggetti, che in seguito avrebbero acquisito, nei lavori di Del Pezzo, una loro autonoma, nitida centralità espressiva. Queste connessioni, infatti, presto decadranno, il dipinto si scarnificherà e si spoglierà pure del sarcofago filamentoso e calcificato delle materia, per presentarci dapprima elementi delle decorazioni e dei rilievi architettonici, e poi oggetti isolati nel silenzio della loro solitudine vitale, in un qualche modo colti nella loro reciproca separatezza e distanza, senza visibili ponti che li mettano in comunicazione, con gli eventuali rapporti fra di loro affidati alla pura forza visiva della loro presenza, alla loro capacità di farsi elemento di un discorso, di una catena di senso che continua e si sviluppa solo con l'ausilio di altre forme, di altri oggetti che se ne stanno, altrettanto solitari, in contrasto o in armonia, accanto a loro. Italo Calvino, nel 1978, nelle sue Paraphrases, testo di presentazione alla Galleria Bellechasse di Parigi, fa dire a uno dei suoi misteriosi viaggiatori che "basta che due segni si rivolgano l'uno all'altro perché il loro dialogo dica cose che noi non potremmo mai fargli dire. Tra le insegne d'una città non si svolgono mai monologhi ma duetti, trii, sestetti, sinfonie in cui l'ingresso d'ogni nuovo interlocutore cambia tutto il discorso". Negli ultimi cinquant'anni, Del Pezzo ha navigato senza sosta nel mare di questi suoi oggetti-simbolo, piegandoli alla rappresentazione dei suoi viaggi interiori, alle intuizioni che germinano nei suoi disegni — come dimenticare quelli, davvero splendidi, a china, che ne fanno uno dei disegnatori contemporanei di più sicuro interesse? —, alle progressive acquisizioni di una capacità espressiva che, mescolando memorie del surrealismo e dell'astrazione, del Dada e del Nouveau réalisme, della Pop Art e del minimalismo, si è data uno stile del tutto peculiare. C'è chi ha osservato, et pour cause, affinità con l'opera di Louise Nevelson e di Joseph Cornell, di Joe Tilson e di Eduardo Paolozzi. Annotiamo che c'è talvolta, nelle sue opere, la linea dell'orizzonte, ma la terra e il cielo sono pure stesure di colore, senza alberi né nuvole, puri concetti mentali, dunque, abitati da solidi geometrici e da oggetti strani, o solcati da improbabili macchine volanti: più che un paesaggio, un teatro dell'assurdo del mondo — Teatro alchemico ha intitolato Del Pezzo una delle opere di fascino e di inquietante mistero in questa mostra alla Galleria d’Arte L’Incontro. I lavori esposti, realizzati negli ultimi anni, sono una scelta assai felice, calibrata e sempre di alto livello. Ripropongono il mondo di severo, rarefatto incanto dell'artista: una Scacchiera che pare transitare, accompagnata da una corte di oggetti-astri vaganti, dentro un infinito dall'incommensurabile profondità, alluso dalla foglia-oro, che caratterizza indelebilmente e fa da sfondo in altri dipinti: Mensola oro, Mensola in oro finto marmo, Mensola in oro e rosso e Casellario in rosso . Davanti ai suoi dipinti è spontaneo provare lo stupore che segna l'inoltrarsi dei bambini nel mondo reale, l'incontro con l'inaspettato e il mai visto, quando lo sguardo è ancora sgombro e pronto a farsi sedurre dal piacere di una scoperta. Del resto, Platone diceva che la geometria è impor tante perché apre la mente di chi vuole comprenderla: non importa il livello di comprensione di una figura, ma il sentimento che ispira e che ne guida l'interpretazione. Dunque, davanti alle opere di Del Pezzo occorre porsi con questa tensione e quest'abbandono all'incanto di forme e colori squillanti, misurando l'ordine e l'armonia di questi oggetti, la loro sapiente combinazione "teatrale", intuendo il fascino di un enigma che non può essere immediate mente, spiegato. Sono, quelli di Del Pezzo, enigmi intrisi di gioco e di ironia, esito di una pur vigile libertà del fare e del creare, all'insegna di quel "libertinaggio delle idee" caro a Leonardo Sciascia, sempre retto dalla tensione a un ordine, a un'architettura dell'opera — André Pieyre de Mandiargues definì, nel 1975, Del Pezzo un "architetto insubordinato". Il sogno giovanile dell'architettura, lo studio dell'agrimensura sono diventati in Del Pezzo opere in cui si sono combinate e fuse l'apparente irrazionalità del sogno e la costante esigenza di ricreare un ordine di forme e strutture che neghino il disordine e la barbarie della realtà, che dentro lo straniamento ritrovino un senso — come se perdersi volesse in fondo dire ritrovarsi. Confessava l'artista nel 2001 quel che ha cercato di rendere nei suoi lavori: "Il pretesto della realtà, il sogno, la memoria o solo il ricordo di una forma, intravista in mille viaggi — una parafrasi del classico, letteratura, architettura, la stenografia dell'inconscio, le note di un grande insieme; le note e sono migliaia, milioni, queste forme che si compongono un po' per volta e ritornano di tanto in tanto modificate, un poco limate, in opere diverse, le tessere di un immenso mosaico, il diario di un creatore di forme, che è disperato dalla realtà". (brani dal testo di Sandro Parmiggiani pubblicato nel catalogo della mostra personale di Lucio Del Pezzo, Galleria Arte 92, Milano, 2012)
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