Nell’arabesco si sommano il tempo circolare e il tempo lineare. Infatti l’arabesco ritorna sempre su se stesso e nel contempo si sposta in un altro punto. Giorgio Griffa
Segni anonimi appartenenti a qualsiasi mano portano al loro interno almeno trentamila anni di memoria e, lasciati indeterminati, non pongono preferenze sul passato. La mia memoria personale svanisce di fronte alla loro. Devo dimenticarmi di me stesso. La pittura ci ha sempre raccontato del mondo attraverso la conoscenza del suo tempo, raccontandoci anche di se stessa. Mi è sembrato, a un certo punto, che fosse diventato necessario nel mio lavoro riunire quello che i segni ci raccontano di se stessi con un riferimento esterno, più o meno allo stesso modo della tradizione che faceva uso qua e là della Bibbia, di Olimpo, di decorazioni tratte dalla matematica, di ideogrammi e molto altro. Questo è ciò che ha dato origine ad alcune serie nel mio lavoro. Nella serie "Tre Linee con un Arabesco", ogni opera conteneva tre linee e un arabesco, oltre a un numero progressivo che le distingueva l'una dall'altra, dove la prima era la numero uno, la seconda, la numero due e così via. Nella serie "Numerazione", i numeri indicavano ogni volta l'ordine in cui i segni venivano posizionati sulla tela. In entrambe quelle serie, è stato dato un ordine, in cui ogni numero segna un prima e un dopo nel tempo e nello spazio. Giorgio Griffa, dal testo Griffa “All the toughts of all” del 2020
Tela, carta sono per Giorgio Griffa oggetti concreti, oggetti fisici presenti nello spazio e fatti in modo tale da rispondere, a loro distinto e specifico modo, all'avvento del colore con le sue trasparenze e irregolarità, con le sue vibrazioni e sfumature. Distinguere, dividere queste componenti della stessa sequenza, queste parti dello stesso organismo, non può che avvenire in ossequio ad un'ottica mercantile e commerciale, completamente estranea allo spirito e agli interessi dell'artista. In questi disegni si respira invece la stessa grazia profonda e aerea, le stesse armonie e gli stessi pensieri che ritroviamo sulle tele. Essi pongono esattamente le stesse domande e veicolano le stesse suggestioni. Per esempio: perché proprio tre linee e un arabesco? Perché non i punti, allora, o le macchie (che pur Griffa aveva già usato chiamandole, più correttamente, "spugnature") perché non i cerchi o le stanghe, perché non le "superfici "come suggeriva Kandinsky? Credo che la questione sia pertinente perché permette di affondare più addentro nelle ragioni profonde di questo lavoro: che infatti rifugge non solo dalle geometrie ma anche da qualunque struttura o forma chiusa, perché essa costituisce una maniera di circoscrivere e quindi di incatenare e definire lo spazio. Kandinsky, nel suo magistrale testo didattico elaborato per il Bauhaus, indica la progressione più elementare e semplice verso la costruzione della forma, mentre Griffa si rifiuta di progredire, come anche di costruire, anzi rinuncia fermamente ad ogni chiusura o determinazione perché, come ha instancabilmente tentato di spiegare, vuole guardare più indietro, alle origini di un fare colorato che prima di essere logico è umano, e prima di essere sistema è intuizione, è bisogno, è senso. Il non-finito di Giorgio Griffa non è romantico ma è impossibilità di fine, cognizione umile e poetica di quelle piccole, insignificanti lacerazioni che inevitabilmente si insinuano nel tessuto compatto di ogni sistema chiuso e troppo perfetto, rilanciando, come attraverso uno spiraglio, I’idea di infinito, incomprensibile che si sa da sempre, cui la stessa morte biologica, se mi è consentito spingermi così lontano, non è certo negazione ma semmai, soltanto, silenzio sopravvenuto da una parte, preludio forse a nuovi suoni, armonia di matematiche vertigini sospese fra nodi di stelle oltre al tempo e ai quanti di Bohr. Alla luce di queste bellissime carte che si snodano l'una dopo l'altra come le note di un concerto o di una serenata, tutte simili e tutte differenti, tutte rigorosamente imperniate intorno alle dimensioni visivamente e fisicamente aperte delle tre linee e dell'arabesco e alla dimensione simbolicamente altrettanto aperta della serie di numeri naturali, tocchiamo ancora con gli occhi l'invenzione materiale di uno spazio pittorico irriducibile al sistema di «mere relazioni fra altezza, larghezza e profondità», come indicava Panofsky, uno spazio incompiuto ma preciso, metafora di un universo vagamente sornione che non si lascia (più) imbrigliare nel continuum regolare di una forma simbolica, nel senso forte di Ernst Cassirer. Questo spazio e questa pittura sono le invenzioni speciali ed esclusive di Giorgio Griffa, frutto dell'irripetibile coinvolgimento del suo corpo, cioè del suo particolare modo di appoggiare la mano alla carta, di scegliere i colori, di pensarsi (anni fa) come uomo occidentale attratto dall'oriente e oggi, forse, come artista dell'era post-heidelberghiana attratto dall'irrazionalità numerica della sezione aurea. Artista che, pur sostenendo fermamente la prevalenza del valore conoscitivo dell'arte, non ha mai disdegnato i piccoli squarci di bellezza continuamente spalancati di fronte ai suoi occhi, nel tessuto denso della carta: fra le volute ritmiche dell'arabesco e la variopinta avventura delle linee. Martina Corgnati, testo tratto “Giorgio Griffa- Tre linee con un arabesco”, 2010.
Tutte queste opere di Giorgio Griffa sono in vendita ad eccezione di quelli dove compare la dicitura "non disponibile"
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