Giorgio Griffa è nato a Torino nel 1936. Nel 1958 consegue la laurea in giurisprudenza e inizia l’attività di avvocato che non abbandonerà mai. Per dieci anni studia pittura finché nel 1968 decide di rinunciare ad ogni elemento rappresentativo. In quegli anni respira l’atmosfera torinese dell’Arte Povera. Tuttavia, mentre i poveristi abbandonano i pennelli, Griffa crede fortemente nella pittura e la re-interpreta con i tratti più basilari (punti, linee, segni, ecc.) da sempre presenti nella mano dell’Uomo e per questo irrinunciabili. Elimina da subito il telaio che limita il campo, ed è affascinato dal non-finito. In ogni suo lavoro non riempie mai la tela e ciò mentre da un lato lascia spazio all'immaginazione, dall’altro rende ogni opera la continuazione ideale della precedente. In questo modo studia il carattere fortemente simbolico dell’esperienza umana che “ha trentamila anni di memoria”. Il suo lavoro si fonda così sui Segni primari e questa sarà la sua impronta inconfondibile.
Inizia subito con mostre importanti prima da Martano (1968) e poi da Sperone (1969). Già nel 1970 viene notato da Ileana Sonnabend che gli allestisce due mostre, prima a New York e poi a Parigi. Dopo il ciclo denominato Quasi dipinto, fra il 1973 e il 1975 esegue quasi esclusivamente Linee orizzontali. Negli anni successivi inizia a far convivere sulla tela sequenze di segni differenti: è il ciclo delle Connessioni. Sono gli anni in cui si avvale di una riflessione di impronta minimalista per una nuova considerazione dell’imponente memoria della pittura. Attenzione: Griffa è tutt’altro che minimalista. Anzi, per lui la memoria è il fondamento per cui ricorre proprio a quei segni semplici “che appartengono alla mano di tutti”, per evidenziare il suo “mettersi al servizio della pittura”, “affidandosi alla memoria della pittura”, “limitandosi al gesto semplice di appoggiare il pennello”. Nel 1978 è invitato alla XXXVIII Biennale di Venezia. Nel 1980 ha una Sala personale alla XXXIX Biennale di Venezia. Negli anni ‘80 con le Contaminazioni affianca spesso ai segni ampie campiture, usa cioè anche il colore sempre come memoria di pittura. All’inizio degli anni ’90 inizia l’importante ciclo Tre linee con arabesco in cui ogni lavoro contiene sempre appunto, fra gli altri segni, tre linee e un arabesco. La numerazione ha lo scopo di fissare il tempo dell’esecuzione. A questo ciclo si affianca poi quello delle Numerazioni. Qui i numeri sulla tela indicano l’ordine in cui sono stati posati i vari colori. In questo caso la numerazione sottolinea l’ordine temporale e lo svilupparsi stesso dell’evento nello spazio. Dal 2008 lavora alla Sezione Aurea e introduce tra i segni quel numero irrazionale senza fine che non procede né si avvicina mai a quello successivo ma si avvita invece nell’ignoto, una specie di nota esplicativa del suo lavoro. Secondo Griffa la pittura ha il compito di rendere noto l’indicibile, di rivelare quell’ignoto che la scienza non è in grado di svelare.
Giorgio Griffa, artista-filosofo, è anche autore di numerosi libri tra cui: Non c’è rosa senza spine (1975), Cani sciolti antichisti (1980), Drugstore Parnassus (1981), In nascita di Cibera (1989), Il principio di indeterminazione (1994), diSegno inSegno (con M. Corgnati) (1995), Come un dialogo (1997), Approdo a Gilania (1998), Intelligenza della materia (2000), Nelle orme dei Cantos (2001), Nota sulla rappresentazione dello spazio (2003), Post scriptum (2005), I flaneur del paleolitico (2014), Il paradosso del più nel meno (con G. Garesio, M. Corgnati e R. Mastroianni) (2014).
Tra le personali più recenti vanno ricordate quelle al MACRO di Roma nel 2011, al Mies Van der Rohe Haus di Berlino nel 2012, al Trinity College di Dublino nel 2014, al Centre Art Contemporain di Ginevra nel 2015, alla Kunsthalle di Bergen 2015, alla Fondazione Giuliani di Roma nel 2016, alla Fondation Vincent Van Gogh di Arles nel 2016, al Serralves Museum di Porto nel 2016, al Camden Arts Centre di Londra nel 2018, e quella ormai prossima al Museo di Lille.
Nel 2012 per la sua mostra “Fragments 1968-2012” alla Casey Kaplan Gallery di New York, Roberta Smith ha scritto sul New York Times: ‘La sua arte merita un posto nella storia mondiale dell’astrattismo’. Sue opere sono nelle più prestigiose collezioni private e istituzionali, in Italia e all’estero. Nel 2013 la Tate ha acquisito la grande tela “Segni orizzontali”, 146x188 cm, del 1975, e l’ha messa in esposizione permanente.
Nel 2017 è stato nuovamente invitato alla LVII Biennale di Venezia.
Giorgio Griffa vive e lavora a Torino
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La Pittura Analitica, altrimenti chiamata Pittura-Pittura, si sviluppò in Italia alla fine degli anni '60 sulla scia di analoghe esperienze francesi e tedesche. La Pittura Analitica si svincola dalla relazione tra l'opera ed un suo significato, evidente (figurativo) o sotteso (concettuale) o espressivo (astrattismo), ma si concentra su una sorta di indagine introspettiva degli elementi intrinsechi che la costituiscono e cioè tela, telaio, colore, segno, e del rapporto tra l'opera ed il suo autore. Cioè, in altre parole, l'Arte Analitica non vuole rappresentare niente, non vuole lanciare messaggi, non scomoda la fisica, è fatta semplicemente di colore e di segni, non ha codici espressivi ma è basata sul rapporto tra il colore, i segni e la sensibilità dell'autore, e quindi si può dire che è un'arte intimistica. L'epicentro di questo movimento fu senz'altro italiano e fu portato avanti da un nutrito gruppo di artisti tra i quali citiamo Claudio Olivieri, Elio Marchegiani, Riccardo Guarneri, Giorgio Griffa, Rodolfo Aricò e Gianfranco Zappettini. Il movimento ebbe risonanza internazionale consacrata dalle mostre presso musei e galleria private europee tra le quali si ricordano Il Museo d'Arte Moderna di Parigi, la Biennale di Venezia, Documenta di Kassel. La spinta che l'Arte Analitica ebbe nell'ambiente artistico sfociò nella Transavanguardia, movimento che portò ad apprezzare nuovamente la pittura.
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