Vanna Nicolotti: il gesto programmato
Alessandro Azzoni
Il Novecento segna una importante cesura nella cultura umana; nel 1957 ha inizio l’Era spaziale, con il lancio del primo satellite. Siamo in un’era totalmente nuova: il pianeta Terra è totalmente antropizzato, colonizzato dall’uomo; si tende verso l’infinito, verso dimensioni altre, verso lo spazio esterno. Gli artisti, quali veggenti e anticipatori dei moti umani, recepiscono la necessità di interpretare la nuova realtà spaziale, di reinterrogare le coscienze. Il Movimento Spazialista si assume questo compito in Italia, a Milano. Lucio Fontana buca la tela, come un razzo che lanciato oltre il confine dell’atmosfera buchi il cielo blu e conquisti la notte infinita. Diversi sono gli artisti che all’inizio degli anni ’60 attraversano quello squarcio, e attivano delle pratiche per creare oggetti estetici in grado di restituire il nuovo campo di possibilità ad una società in fermento, stimolata dalle innovazioni scientifiche e da uno sviluppo sempre più globale. Vanna Nicolotti opera una progressiva sintetizzazione della materia pittorica, fino ad eliminare colori e forme: siamo al monocromo, la tela come luce, tensione di colore puro che si stende libera, delimita una sezione sensibile di spazio. E se alcuni artisti decidono di tendere la tela monocroma, trapuntarla come a rendere evidente la pulsazione del continuum spazio-tempo, Vanna Nicolotti decide di tagliarla. Il taglio primordiale di Fontana viene addomesticato, trattato con perizia geometrica. Si moltiplica, si organizza creando un nuovo vocabolario di forme, che non cercano una nuova rappresentazione sulla tela, ormai superflua, ma la rendono una zona sensibile in cui la superficie bidimensionale diventa tridimensionale. Il quadro non è più una finestra di finzione, è lo spazio stesso, nel suo organizzarsi ritmico e per piani sovrapposti; l’opera è diventata un quadro-oggetto, come li definisce per primo Gillo Dorfles . Nella sua pratica Vanna Nicolotti non ha mai rinunciato alla proporzione classica, alla costruzione della composizione secondo il quadrato aureo e altre forme geometriche armoniche. Il riferimento è alla scuola di Pitagora, ritmo e proporzione per indagare le dimensioni dell’universo e della natura umana, numero e serie come manifestazioni spirituali prima che scientifiche. Ma come ha intuito chiaramente Pierre Restany, scrivendo del lavoro di Vanna Nicolotti , questi quadri-oggetto sono strumenti critici per la visione, vi è sì una armonia, ma il loro rapportarsi con lo spettatore passa per il mistero della percezione. La tensione sta nel fatto che queste opere sono apparentemente calme e inoffensive, trapuntate di intagli così rigorosi da essere muti, eppure proprio la serialità di queste forme, e il gioco di ombre-luci, pieni-vuoti e della molteplicità di piani attiva una trappola per lo sguardo. Cosa si nasconde dietro queste membrane percettive, queste soglie dimensionali? Una possibilità spaziale infinita: a volte si incontra un fondo metallico, speculare, che moltiplica di nuovo i piani, che ribadisce che da vedere non c’è nulla: si produce un’oggettivazione dello sguardo, ciò che si sta contemplando è l’atto stesso del vedere. “Il cammino fra il significante ed il significato è percorso nel modo più «pulito» possibile, passando dallo stimolo agente sulla visione al funzionamento del processo percettivo, dalla registrazione mentale dell'informazione percepita al campo recondito e mutevole della valutazione soggettiva” scriveva Vicente Aguilera Cerni. Questa “contemplazione” questo “vedere il nulla” riporta idealmente al processo di trascendenza della meditazione orientale: si libera la mente da ogni pensiero superfluo, spesso recitando un mantra, un suono o una frase ripetuta serialmente (come i motivi dei quadri in questione) finché questa non perde il proprio significato di parola. Questo finché non si raggiunge la pura contemplazione, lo stato di trascendenza o Brahman, il che equivale ad abbracciare l’intero universo: “La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell'anima” . Con Jung la psicologia moderna deve rifare i conti con le dimensioni primordiali della mente e dell’anima. Per abbracciare simbolicamente la struttura dell’universo, e così ricostituire un ordine interiore attraverso la pratica contemplativa, i monaci tibetani tracciano i Mandala, disegni basati sull’interconnessione fra le forme del quadrato (i quattro punti cardinali, le quattro dimensioni) e il cerchio (il cielo, l’infinito). Il Mandala, riconosciuto anche da Jung come archetipo dell’ordine interiore, dal potere terapeutico, è citato nelle opere di Vanna Nicolotti come metodo organizzativo del mantra visivo costituito dalle sue superfici. Ci si addentra nel mandala, che si materializza sulla tela sia come porta, tunnel verso la possibilità; sia come reticolato, come piano organizzato. Qui la mistica sfuma nella cosmogonia e prende vita il diagramma reticolare del continuum spazio-tempo. Non potendo rappresentare l’universo in modo tradizionale, dopo la Teoria della Relatività di Einstein, si preferisce simboleggiare le quattro dimensioni come un unico piano quadrettato, che viene increspato e piegato dalla forza di gravità dei corpi celesti. Ma alcune opere di Vanna Nicolotti degli anni ’80 ribadiscono anche una dimensione umana, sociale e prettamente immanente del suo lavoro. Opere che utilizzano anche la parola applicata su tela, come a negare criticamente il valore di feticcio estetico di queste superfici: esse tornano ad essere semplici pagine su cui scrivere, le cui iscrizioni pongono lapidarie domande. Le questioni della segregazione, della società disciplinare che impone il carcere, della società di controllo e del colonialismo latente che continua a individuare un primo, un terzo e un quarto mondo sono affrontate in diverse opere. Dunque gli oggetti critici per la visione non pongono solo domande a livello di dialettica macro-microcosmo, ma anche a livello dell’unico organismo interconnesso fra sfere mentali, sociali ed economiche, quale è la molteplicità della coscienza rizomatica globale. Deleuze e Guattari descrivono il molteplice come organizzato in piani, zone di intensità continua dove si possono verificare processi soggettivizzanti, totalizzanti o unificanti. Per Michel Foucault è proprio la natura “quadrettata” (quadrillage) dello spazio (fisico, mentale, urbano, economico) che permette agli apparati di potere di governare i corpi e le menti. Lo spazio è quadrettato perché attraversato dalle diverse formazioni strategiche e di disciplina: nelle società di controllo in cui viviamo il potere è dunque in grado di assoggettare la triplice sfera relazionale del sapere, del potere e della capacità del sé. Ci troviamo dunque anche intrappolati all’interno di questo spazio quadrettato. L’opera dell’artista si rivolge quindi direttamente alla nostra soggettività: come poterci liberare? Come sfuggire al controllo, non dissimile in fondo da quello che è la pigrizia dell’automatismo della visione, che come abbiamo visto queste opere cercano di spezzare? Attraversando lo spazio con consapevolezza, coscienti della molteplicità di piani e della interconnessione fra sfere ecologiche, mentali, sociali, universali, e dei processi deterritorializzanti e riterritorializzanti che le interessano. Occorre rifiutare, secondo l’esempio di queste opere, i paradigmi estetici obsoleti e ormai assoggettati a un’estetica del consumo, reinterrogando criticamente ciò che vediamo e leggiamo; spogliare la realtà dal superfluo, per riaffermare i veri significati e la libertà di agire e pensare.