Giuseppe Uncini. L’artista come homo faber.
di Ivan Quaroni
Ripensare oggi, con un minimo di distanza critica, la traiettoria evolutiva dell’opera di Giuseppe Uncini significa, inevitabilmente, rilevarne l’impressionante coerenza formale e l’estrema compattezza concettuale. La sua ricerca è stata, attraverso ogni ciclo di lavori, passaggio dopo passaggio, dagli esordi in ambito informale fino alle ultime Architetture e agli Artifici, una storia di progressive intuizioni, di felici precisazioni, di ardue insistenze intorno a un tema, a una pratica, a un modo di intendere la questione della forma, che non lascia spazio a dubbi circa la qualità e l’unicità della sua visione. Non solo Giuseppe Uncini ha prodotto molto, ma ha anche progettato e scritto, senza mai risparmiarsi, intorno alle ragioni del suo fare. Un fare che egli intendeva già come parte integrante del senso ultimo dei suoi lavori e come nucleo solido di un processo costruttivo che era, esso stesso, oggetto concreto della sua indagine. “Mi preme puntualizzare”, scriveva l’artista nel 1972, “che per me la scelta dei materiali costituisce già parte dell’idea: e i materiali (il ferro, il mattone, il cemento) m’impongono l’uso di certe tecniche rigorosamente proprie”. C’è una parola, “costruire” che ricorre ossessivamente in tutta la storiografia critica sull’opera di Giuseppe Uncini, un termine che descrive precisamente l’adozione di una pratica che appartiene all’edilizia e all’architettura contemporanea, ma che egli piega alle proprie esigenze espressive, privandola dell’aspetto prettamente funzionale. Con il Primo cementarmato del ’58-‘59, Uncini si lascia alle spalle quell’approccio alla materia che rientrava ancora nell’ambito allegorico e metaforico della rappresentazione. Nella serie delle Terre, che occupa l’artista dal 1953 fino a quel fatidico lavoro, le coordinate concettuali e stilistiche sono quelle tipiche della Pittura Informale, in cui l’uso sperimentale di supporti come la masonite e di colori ottenuti con terre, malte, sabbie, carbone e cemento, corrisponde ancora a un’attitudine a sublimare i materiali in immagini. Il Primo cementarmato, cui perviene dopo il suo definitivo trasferimento a Roma, nello studio di Edgardo Mannucci, appena liberato da Alberto Burri, costituisce una cesura definitiva che ha la fermezza e chiarezza d’intenti di un Manifesto. L’opera, una lastra di cemento percorsa da una rete metallica che fuoriesce oltre il perimetro, non lascia spazio ad alcuna allusione esistenziale: è un oggetto nudo e brutale, privo d’indeterminatezza, come il successivo Cementarmato e lamiera, che accosta i due materiali con un semplice sistema di ganci. Da questo momento in avanti, Uncini va formulando una grammatica costruttiva elementare ma efficacissima, i cui lemmi fondamentali sono la lamiera, il cemento e i tondini di ferro, ma anche i segni delle venature lasciati sulla pasta cementizia dalla formatura in casse di legno. Tutti i Cementarmati, fino al 1963, mostrano un linguaggio scultorio secco, asciutto, disadorno e compatto, che non lascia spazio a equivoci e chiarisce i motivi per cui Uncini sia stato spesso considerato come una sorta di precursore del Minimalismo e dell’Arte Povera. Già all’epoca della sua prima mostra personale romana all’Attico nel 1961, rispetto alle prime prove, i Cementarmati, mostrano un ordine chiaro, con scansioni verticali e orizzontali decise, animate dalle impronte superficiali della formatura e dalle sporgenze periferiche dei tondini di ferro. Come osserva Giovanni Maria Accame, “Uncini è riuscito a separare la costruttività dalla costruzione” , ossia a scindere il procedimento dell’edificazione, che prevede l’assolvimento di scopi e funzioni precise, dalla primarietà del processo strutturale, cioè dall’atto stesso di costruire. In pratica, Uncini scorpora il cemento dalla sua destinazione finale, lo rende un materiale autonomo, non più vincolato alla presenza di un edificio. Ed è questo un passaggio fondamentale per comprendere tutto ciò che verrà dopo e per assimilare l’idea che sottende l’intera ricerca di Uncini, cioè di rendere evidente e visibile il rapporto tra l’uomo e il mondo attraverso una delle sue attività primordiali, quella del “costruire” con la stessa materia elementare, primaria che l’artista aveva usato nelle Terre pittoriche degli anni Cinquanta. Ciò che distingue il pensiero di Uncini da quello dei Minimalisti americani, i quali inseguivano la non espressività e la tautologia assoluta dei materiali, è appunto la corrispondenza profonda tra l’oggetto e il processo (e anche il progetto), l’idea che il manufatto e il processo costruttivo siano strettamente correlati. Non è un caso, infatti, che al centro delle sue riflessioni sia un verbo (costruire), piuttosto che un sostantivo, come a rimarcare che l’arte è innanzitutto “un fare”, ossia qualcosa d’intimamente connesso alla natura umana fin dall’alba dei tempi. In una lettera del 1975 a Maurizio Fagiolo dell’Arco, Uncini ammetteva quanto fosse decisiva la sua “natura di homo faber, di uomo che pensa con le mani” e come, da quel Primo Cementarmato, fosse giunto finalmente a “costruire l’oggetto, lasciando a nudo tutti i procedimenti tecnici del suo farsi” , fino al punto di ottenere non più una forma di rappresentazione, ma un oggetto autosignificante e, quindi, concettualmente autonomo. Soprattutto, Uncini ci teneva ad affermare l’identità tra l’opera e il suo processo di costruzione, in modo che l’osservatore non dovesse più cercare il senso dell’opera fuori da essa, in un qualche riferimento o rimando ad altro, ma dentro l’oggetto stesso, nel modo in cui era stato pensato e costruito. Per questa ragione, lungo tutto il corso della sua indagine artistica, accanto alle sculture, acquistano rilievo e pregnanza i materiali progettuali dell’artista: gli schizzi, i disegni, le carte in genere, come evidenti espressioni del suo modus pensandi. Anche perché, come nota Bruno Corà, nell’opera di Uncini il disegno accompagna “tutto il suo percorso artistico determinando in maniera considerevole ogni grande partizione linguistica […], sino all’ultima creazione”. Esso è, infatti, parte integrante di ogni processo costruttivo, idea, progetto e pianificazione, che precedono la messa in opera. Se “il costruire” è il perno centrale dell’indagine di Uncini, il motivo propulsore della sua produzione, le “partizioni linguistiche” cui accenna Corà corrispondono ai diversi cicli che l’artista ha affrontato nel tempo. Cementarmati, Ferrocementi, Strutturespazio, Mattoni, Ombre, Interspazi, Dimore, Spazi di ferro, Muri d’ombra, Architetture e Artifici sono serie che declinano la natura edificatoria del lavoro di Uncini in una pletora di temi e sotto-temi, i quali articolano e precisano quella prima fulminante intuizione in molteplici direzioni. Lo spazio (e la sua percezione) è il motivo più insistente, quello che Uncini non abbandonerà mai, fino a compendiarlo, negli ultimi lavori, nella dimensione più pertinente dell’Architettura. In verità, fin dai Cementarmati, si avverte una particolare attenzione per l’articolazione dei piani e per il bilanciamento di vuoti e pieni, di cavità e aggetti, fino alla creazione del primo Traliccio (1960-61), una scultura che precorre le soluzioni di tanti cicli successivi, dagli Ambienti alle Strutturespazio della fine degli anni Sessanta e dell’inizio dei Settanta, fino agli Spazi di ferro e agli Spazicemento che occupano il passaggio tra il vecchio e il nuovo millennio. Qui il tondino di ferro, ancora in dialogo serrato col cemento, comincia ad acquistare una propria autonomia formale, componendosi in griglie geometriche che ripartiscono lo spazio vuoto. È tuttavia negli anni successivi, quelli dal ’62 al ’67, un periodo molto importante sul piano della riflessione e della sperimentazione che coincide con l’esperienza all’interno del Gruppo I, che Uncini comprende appieno le possibilità d’impiego del ferro. Diversamente articolato sulla superficie o nello spazio, il tondino di ferro assume valore di segno (Ferrocementi) o di struttura pura (Ambienti e Strutturespazio). La linearità del tondino, più prossimo alla dimensione disegnativa del progetto, induce l’artista a ragionare sulla struttura e la geometria, che erano già al centro degli interessi del gruppo romano di cui facevano parte, oltre a Uncini, Nato Frasca, Gastone Biggi e Nicola Carrino. Il Gruppo I, sostenuto entusiasticamente da Giulio Carlo Argan, rivendicava la necessità di dare all’arte un ruolo sociale e per questo s’interessava alle ricerche scientifiche coeve e alle sue possibili applicazioni in campo industriale, riprendendo le fila del discorso lasciato in sospeso dal Bauhaus. Le Strutturespazio di quegli anni, con le quali l’artista partecipa alla XXXIII Biennale di Venezia nel ’66, diventano ambienti percorribili, luoghi di attraversamento che testimoniano l’interesse di Uncini per gli spazi vuoti, appena circoscritti dalle linee ferrose. Alcuni di questi, come ad esempio Sedia con ombra (1967) e Finestra con ombra (1968), avviano la riflessione sugli spazi virtuali occupati dalla proiezione degli oggetti. Col ferro, l’artista fornisce un corpo fisico alle sagome delle ombre, che diventano così oggetti concreti equivalenti a quelli reali. La percezione della dimensione impalpabile e virtuale dello spazio occuperà anche i cicli degli anni a venire. Tra il 1969 e il 1971 l’interesse di Uncini assume un valore ancora più costruttivo con la serie dei Mattoni, in cui usa la più tradizionale delle tecniche di edificazione per sostanziare in senso plastico e architettonico le ombre gettate da archi, paraste, muri di cinta, colonne, portali e speroni. Il mattone diventa lettera di un alfabeto strutturale che rimanda immediatamente al passato, alla tradizione del Rinascimento marchigiano, di cui l’artista è imbevuto, pur restando nei confini di una sensibilità contemporanea, tutta volta alla disamina del valore intrinseco dell’oggetto. I Mattoni, come già i Cementarmati e gli Ambienti, eseguiti con procedure ingegneristiche e architettoniche, sono liberati dall’originaria funzione d’uso allo scopo di stimolare l’immaginazione e i sensi dell’osservatore, che sarà, così, spinto a riflettere sulla coesistenza tra una spazialità visibile e una spazialità invisibile. Uncini traduce in materia, sua antica ossessione, anche ciò che i sensi catturano flebilmente o addirittura ignorano. Prima le Ombre (1972-1987), private degli oggetti che le proiettano, poi addirittura gli Interspazi (1978-1988) tra le cose, dove il vuoto viene solidificato, creando tra i volumi nuove figure spaziali. Il lavoro dell’artista si sposta sulla dimensione bidimensionale dell’immagine e sulla sua capacità di evocare lo spazio e la profondità. Nascono, così, le Dimore, un ciclo che occupa quasi per intero gli anni Ottanta (1979-1987) e che introduce il tema della funzione ricostruttrice della memoria. Emilio Tadini le paragona a certi mobili, come cassapanche e armadi, in cui possiamo riporre i nostri oggetti: “È come se queste opere rappresentassero quotidianamente, nell’uso domestico che possiamo farne, in una specie di teatro domestico, il grande atto dell’abitare”. Mentre riflette sul rapporto tra realtà fisica e pensiero, Uncini individua nelle origini storiche ed esistenziali delle dimore gli archetipi dell’abitare, che in ordine di tempo stanno immediatamente dopo l’archetipo del costruire. Sono, queste, sculture che invitano l’occhio a percorrere uno spazio solo suggerito, quasi disegnato, una sorta di mappa mentale fatta di strutture riconoscibili, familiari, che aprono un varco nella sfera percettiva e cognitiva di ognuno. Sarà lo stesso anche nei successivi Muri d’ombra, dove l’illusione prospettica sul piano bidimensionale dimostra come sia facile ingannare l’occhio umano, e negli Spazi di ferro (1987-1992), che approfondiscono intuizioni risalenti al periodo dei Cementarmati, introducendo l’idea dinamica del movimento con reticoli di ferro che invadono lo spazio tra i cementi e saturano il vuoto tra i solidi con una fitta trama di diagonali passanti. Qui si avverte già, in nuce, il passo seguente di Uncini. I solidi generano un campo di forza nello spazio che è riconducibile solo alla loro presenza, al loro ingombro e alla loro massa statica, che trasforma il vuoto circostante in un corpo energeticamente compatto. È quel che accade negli Spaziocemento degli anni Novanta, in cui la forma solida cementizia e lo spazio vuoto sono costretti in un perimetro lineare di ferro e vincolati in un rapporto di forzoso equilibrio. Ma stringente e forzosa è pure la mutualità del cemento e del ferro, sia nei Tralicci che inaugurano il nuovo millennio, sia in certe Maquette e in taluni Muri di cemento, in cui il ruolo riservato ai tondini metallici è di suturare, legare, comprimere e serrare i cementi in una morsa avvincente. Col senno di poi, si dice in questi casi, tutto il percorso di Uncini appare chiaro e coerente, quasi inevitabilmente consequenziale. Nel marzo del 2007, in una conversazione con Bruno Corà, l’artista conferma tale intuizione: “Quando sento esaurirsi un’esperienza ne accendo una successiva con la convinzione che ciò che metto in moto è soddisfacente allo sviluppo del processo di lavoro precedente”. Nella parabola ascendente del suo percorso, Uncini è riuscito non solo a restare fedele a un’intuizione iniziale, ma anche a cogliere aspetti imprevisti e inimmaginabili agli esordi della sua carriera. Partito dalla materia, dall’evidenza cruda e brutale dell’oggetto, ha scoperto le forze invisibili che la circondano, quelle che inevitabilmente rimandano all’interiorità dell’individuo e alla sua capacità di leggere e interpretare il mondo. Intorno ai cementi, ai mattoni, alle strutture di ferro c’è, infatti, la virtualità sensibile dello spazio, che è poi il vero campo d’azione dell’esperienza. Un’esperienza che Uncini ha compendiato nell’atto di “costruire” e che si è degnamente chiusa con il ciclo delle Architetture, in un finale e definitivo riconoscimento della necessità primaria di edificare non solo l’ambiente, gli oggetti, le cose, ma anche, e forse soprattutto, la conoscenza, la sensibilità e la cultura che rendono l’homo faber artefice (e artista) del proprio destino.